
di Pasquale Acconciaioco/Il 14 febbraio alcuni detenuti della redazione di Ne Vale la Pena hanno incontrato un gruppo di studenti del Liceo Minghetti presso la “chiesetta” della casa circondariale. Io ero presente: è stata un’occasione per riflettere e condividere i pensieri che di seguito provo ad esprimere nel resoconto delle ore trascorse insieme.
Erano presenti, oltre a noi, i volontari dell’Associazione “Il Poggeschi per il carcere” ed alcuni giovani agenti di polizia penitenziaria in formazione. Uno di loro mi ha colpito in particolare: dopo essersi presentato ed averci raccontato di essere laureato, ci ha spiegato quanto ritiene utile ed importante il suo mestiere per la società.
Dopo una lunga attesa sono finalmente arrivati i nostri ospiti; dopo i saluti di rito e una presentazione veloce ci siamo divisi in tre gruppi, a cui hanno partecipato, oltre a noi e gli studenti, anche i volontari ed i giovani agenti.
Avendo capito che avevamo a disposizione un tempo abbondante per stare insieme e scambiarci informazioni e punti di vista sulla vita in carcere, ho pensato di salire in cella per recuperare diversi articoli scritti per la redazione, attraverso i quali avrei potuto trasmettere contenuti ed emozioni non solo a parole ma con i testi che avrei volentieri consegnato loro.
La nostra etichetta
Ho sentito fin da subito affiatamento e attenzione nella conversazione. Nel mio gruppo, a cui oltre a me hanno partecipato Giuseppe, Gabriele e Massimo, ha rotto il ghiaccio l’agente che mi aveva colpito fin da subito; ci ha chiesto se, da parte nostra, c’è rassegnazione al giudizio negativo della società o se abbiamo speranza di poterci liberare dell’etichetta di “cattivi”. Io ho voluto rispondere subito in modo deciso, perché sono profondamente convinto che l’unica etichetta che ognuno porta con sé è il proprio nome, e che, come persone, dobbiamo sentirci uguali e degni di rispetto. Le vie che portano in carcere sono tante, e tutti potenzialmente, per varie circostanze, siamo esposti a questo rischio: pensiamo ai sentimenti violenti che tutti, prima o poi, proviamo e a quanto spesso sia difficile prevederne le conseguenze. Se un giorno incontrerò qualcuno che nutre pregiudizi nei miei confronti perché sono stato in carcere, credo che reagirò con indifferenza, perché, come ho detto, l’unica etichetta che mi sento addosso è quella del mio nome, e che il male che si commette non può azzerare il valore di una persona. So che non tutti i miei compagni la pensano così, e che l’”etichetta” che ci potremo ritrovare addosso in futuro spaventa soprattutto chi ha una famiglia e dei figli a cui nascondere un passato di errori che fanno vergognare.
Le domande degli studenti
Alla domanda “Riesci a trovare momenti di felicità in carcere?” ho risposto “Sempre!!” So che anche questa risposta può sembrare strana o non sincera, ma sento davvero che il carcere non condiziona il mio modo di essere. So di avere molte limitazioni, ma posso ridere, scherzare, fare battute e sentirmi vivo in tanti modi , ritrovando di frequente frammenti di felicità.
“Quale è la prima cosa che faresti appena varcato il cancello?”, ha poi chiesto uno studente. Ho pensato subito e ho cercato di spiegare che tutti sentiamo ovviamente il bisogno di stringere fra le braccia una donna perché la privazione affettiva e sessuale è un grande peso, e che però, oltre questo, il desiderio va alle piccole cose come mangiare in buona compagnia una pizza bevendo una birra fresca, non avendo qui la possibilità di bere alcolici.
Ancora, l’agente ci ha incalzato chiedendo “Commetteresti ancora gli stessi errori che ti hanno portato in carcere?” Gabriele ha risposto che nella vita purtroppo le situazioni, la necessità e spesso il luogo in cui si nasce condizionano le scelte e portano a fare azioni che nessuno vorrebbe realmente fare; nessuno probabilmente esce di qui con l’intenzione di ritornare sui propri errori, ma poi… la ripresa dopo l’esperienza di detenzione spesso è molto problematica. Io ho aggiunto che ognuno ha il suo percorso interiore e che per quanto mi riguarda sono stanco di entrare e uscire, e che proverò con tutte le mie forze a non frequentare più quei posti e quelle persone che hanno condizionato pesantemente le mie scelte sbagliate.
I problemi di convivenza
I ragazzi hanno espresso curiosità rispetto ai legami che si creano con i compagni di cella, e se anche una volta fuori ci si sente o ci si frequenta. Ho detto che se si riesce a “convivere” con lo stesso compagno per anni e anni, probabilmente uno dei due è un santo… Ho spiegato che in carcere capita spesso di litigare perché la tensione è tanta, e che se la situazione diventa insostenibile si può chiedere di cambiare compagno. Ma per lo più si fanno piccoli sacrifici per sopportare i difetti che ognuno di noi ha. Gabriele ha aggiunto che, una volta fuori, forse non c’è nemmeno la possibilità di incontrarsi, anche per via delle restrizioni che spesso la Magistratura di Sorveglianza impone durante i permessi o quando ci si trova in misure alternative alla detenzione.
Una studentessa ci ha chiesto come mai abbiamo deciso di fare attività di giornalismo. Ognuno di noi ha esposto le sue motivazioni: io, personalmente, ho detto che mi piace scrivere e che, comunque, essendo molto poche le attività che vengono proposte, ogni iniziativa viene vista con interesse, anche se solo per curiosità.
“Come vivete i momenti in cui siete chiusi in cella? A cosa pensate quando rimanete soli?”: a queste domande ho risposto raccontando di una notte in cui, solo perché il mio compagno era stato trasferito, mi sono messo a scrivere la poesia “Alla libertà piace nascondersi”, che ho avuto il piacere di consegnare agli studenti come segno e ricordo del nostro incontro. Sempre con un mio testo “Dal tramonto all’alba” ho illustrato loro in dettaglio come può essere l’esperienza delle celle chiuse: l’insegnante che accompagnava i ragazzi e, a seguire, tutti i componenti del gruppo mi hanno applaudito, esprimendo così il loro grazie e la loro partecipazione; da parte mia un grazie speciale va alla ragazza, di cui non ricordo il nome, che ha letto il testo con un sentimento profondo, che veniva dal cuore.
Anche in merito all’importanza della presenza dei volontari ho proposto il testo “La grande mela e la farfalla libera”, in cui ho cercato di far capire quanto le giornate, se trascorse anche solo in parte con persone che vengono dall’esterno per stare con noi, possono diventare belle e non perse nel dimenticatoio del tempo inutile trascorso in carcere, proprio come stava accadendo nelle ore che stavamo trascorrendo insieme.
Il tempo è volato piacevolmente nella conversazione. E in un batter d’occhio ci siamo ritrovati all’ultimo quanto d’ora ed ai saluti finali.
Concludo ripensando a uno degli argomenti affrontati, e cioè al rapporto fra agenti e detenuti. Ho fiducia che potranno, nel tempo, migliorare, grazie alla maggior formazione scolastica e professionale che abbiamo potuto toccare con mano nell’incontro. Spero che pian piano si possa superare l’impostazione militaresca che ancora oggi constatiamo, e che la gentilezza e la cordialità possano diventare stile diffuso anche in questa relazione così potenzialmente conflittuale, che spesso ho avuto il dispiacere di sperimentare.
Giovedi 14 febbraio 2019 abbiamo a mio parere vissuto un momento speciale: eravamo tre gruppetti di persone in una chiesetta, tutte animate dalla voglia di modificare e migliorare il modo di pensare il carcere, ancora oggi troppo ristretto!