
di Pasquale Acconciaioco/L’unica cosa che in carcere può tormentarmi è la mancanza di libertà. Il pensiero di quell’ultimo giorno, che non arriva mai, può diventare una vera ossessione. Quindi è meglio non pensarci, perché anche se siamo “dentro” non possiamo morire dentro noi stessi, e dobbiamo cercare a tutti i costi di sopravvivere.
In questa lotta con me stesso, ho scoperto che è possibile, almeno per me, non pensare ossessivamente alla libertà. Certo il pensiero è sempre rivolto al mondo esterno, ma anche qui, come fuori, ogni giorno il mondo si sveglia e la vita e le attività continuano. Così ho trasformato il carcere nella mia città, o meglio nel mio quartiere d’infanzia. Quando ero piccolo uscivo di casa, andavo in una traversa della via dove abitavo a chiamare un compagno e passavo tutta la giornata a giocare a pallone. Insieme si passavano ore e ore a giocare, ridere e scherzare e, la sera, si giocava a carte, imitando gli adulti. Dopo la scuola questa era la nostra libertà, una libertà che per me è durata dai 6 ai 16 anni.
Qui sto vivendo una realtà molto simile; 26 anni dopo, anche adesso ogni giorno vado a scuola, dopo esco di casa, vado alla cella di fronte a chiamare il mio amico, con cui per un po’ gioco a carte, per poi passare alla composizione delle squadre per giocare a calcio. È proprio un salto nel passato. A chi non piacerebbe rivivere i momenti belli dell’infanzia? E qui, per di più, come allora non abbiamo telefonini e computer e non siamo, almeno per questo, tentati dall’isolarci, chiusi in casa davanti ad uno schermo. Senza telefono e senza Internet rimane la libertà di dedicarci alle attività e ai ritmi che hanno reso belli tanti momenti del passato. Con tutto ciò non nego il mio profondo desiderio di essere davvero libero, cioè di uscire dal carcere e vivere appieno la vita; ma devo essere realista e concentrarmi sulla libertà che posso trovare qui dentro, vedendola e vivendola attraverso il mio passato.